venerdì 12 dicembre 2025

La Nobel per la pace Narges Mohammadi è stata arrestata in Iran

 @ - La vincitrice del Premio Nobel per la Pace iraniana Narges Mohammadi e diversi altri attivisti sono stati arrestati oggi durante una cerimonia commemorativa nella città nord-orientale di Mashhad. Lo rendono noto i gruppi per i diritti umani iraniani, citati da Iran International.

La Nobel per la Pace Narges Mohammadi è stata arrestata in Iran© Provided by ANSA

Mohammadi, che sta scontando una pena detentiva complessiva di 13 anni e nove mesi per accuse di sicurezza nazionale, è in congedo per motivi di salute dal carcere di Evin a Teheran. Ha affermato che non tornerà volontariamente e che qualsiasi nuovo arresto costituirebbe un atto di disobbedienza civile.

La Fondazione Narges Mohammadi, si legge ancora su Iran International, ha dichiarato che Mohammadi è stata arrestata oggi mentre partecipava alla cerimonia di lutto del settimo giorno per Khosrow Alikordi, un importante avvocato per i diritti umani la cui recente morte ha suscitato l'indignazione dell'opinione pubblica. La fondazione ha affermato che l'arresto è stato eseguito durante l'evento da agenti di sicurezza e di polizia.

La fondazione ha aggiunto che anche gli attivisti Sepideh Gholian, Hasti Amiri, Pouran Nazemi, Alieh Motalebzadeh e molti altri sono stati arrestati durante la cerimonia.

Mohammadi, una dei più importanti difensori dei diritti umani in Iran, ha ripetutamente affermato di essere sottoposta a gravi minacce da parte delle agenzie di sicurezza iraniane. Ad agosto aveva dichiarato alla rivista tedesca 'Der Spiegel' che agenti dell'intelligence le avevano rivolto minacce di morte dirette e indirette.

Il presidente del Comitato norvegese per il Nobel aveva affermato all'epoca che Mohammadi aveva avvertito che la sua vita era in pericolo, citando quelle che lei aveva descritto come minacce di "eliminazione fisica" da parte di agenti statali.

Mohammadi ha accusato le autorità iraniane di aver intensificato la pressione sulla società civile dopo il cessate il fuoco di giugno con Israele, affermando che la repressione di attivisti, giornalisti e critici si era intensificata. I gruppi per i diritti umani affermano che l'Iran rimane uno degli ambienti più restrittivi al mondo per la libertà di espressione, con attivisti frequentemente detenuti, processati e incarcerati.

giovedì 11 dicembre 2025

USA, media: "Nuova strategia Trump prevede allontanamento Italia da UE"

 @Nella versione estesa della nuova Strategia di sicurezza nazionale degli Stati Uniti studiata dall'amministrazione Trump - non pubblicata dalla Casa Bianca ma visionata dalla rivista Defense One - l’Italia, insieme ad Austria, Polonia e Ungheria, viene indicata tra i Paesi con cui Washington dovrebbe "collaborare maggiormente" con l’obiettivo di "allontanarli" dall’Unione Europea.

Usa, media: "Nuova strategia Trump prevede allontanamento Italia da Ue"

Al fine di "rendere l'Europa di nuovo grande", il documento suggerisce inoltre che gli Stati Uniti dovrebbero sostenere "partiti, movimenti e figure culturali" favorevoli alla sovranità nazionale e alla difesa dei "modi di vita europei tradizionali", a condizione che rimangano filoamericani.

Intanto l'offensiva di Trump contro la "decadenza" dell'attuale leadership europea provoca reazioni diverse tra partiti dell'estrema destra, quei "partiti europei patriottici", incoraggiati, recita la Strategia di Sicurezza Nazionale, a promuovere da "alleati politici in Europa" un "revival dello spirito". Un sostegno che la tedesca 'Alternativa per la Germania' (Afd) ha accolto con entusiasmo, considerandolo un potente aiuto verso una legittimazione che metta fine al suo ostracismo politico.

Molto più cauto Rassemblement National, sia per motivi politici, e in ultima analisi sovranisti, ma anche per la grande impopolarità di Trump tra l'elettorato francese, sottolinea Politico che analizza le posizioni dei due partiti di estrema destra al momento in testa ai sondaggi in Germania e Francia.

Il documento di 33 pagine elaborato dal presidenteTrump e reso noto dalla Casa Bianca contiene parole brutali nei confronti dell'Europa, vista come una civiltà in declino.

"L’amministrazione Trump - si legge -si trova in disaccordo con funzionari europei che nutrono aspettative irrealistiche sul conflitto" in Ucraina, "radicate in governi di minoranza instabili, molti dei quali calpestano i principi democratici di base sopprimendo l’opposizione". "Una grande maggioranza europea desidera la pace, ma tale desiderio non si traduce in politiche, in larga parte a causa della sovversione dei processi democratici da parte di quei governi", prosegue il testo, che sottolinea come questo sia "strategicamente importante per gli Stati Uniti proprio perché gli Stati europei non possono riformarsi se restano intrappolati in crisi politiche".

La strategia, che pone l'enfasi sul rischio di declino della civiltà europea ed esorta le singole nazioni a resistere all'influenza dell'Ue, delinea come "interesse fondamentale degli Stati Uniti negoziare una cessazione delle ostilità rapida in Ucraina, per stabilizzare le economie europee, prevenire un’escalation o un’espansione indesiderate del conflitto, ristabilire la stabilità strategica con la Russia e consentire la ricostruzione postbellica dell’Ucraina, affinché sopravviva come Stato vitale".

Sul versante europeo, la Casa Bianca spiega che le nazioni hanno perso fiducia a causa del declino, pur godendo di un "notevole vantaggio di potenza rispetto alla Russia in quasi tutte le misure, tranne che per le armi nucleari. A seguito della guerra della Russia in Ucraina, le relazioni europee con la Russia sono oggi fortemente deteriorate e molti europei considerano la Russia una minaccia esistenziale. Gestire i rapporti europei con la Russia richiederà un significativo impegno diplomatico statunitense, sia per ristabilire condizioni di stabilità strategica attraverso la massa continentale eurasiatica, sia per mitigare il rischio di conflitto tra la Russia e gli Stati europei".

La strategia spiega anche che la guerra in Ucraina ha avuto "l’effetto perverso di aumentare la dipendenza esterna dell’Europa, in particolare della Germania. Oggi le aziende chimiche tedesche costruiscono alcuni dei più grandi impianti di lavorazione al mondo in Cina, utilizzando gas russo che non possono ottenere in patria. Eppure, l’Europa rimane strategicamente e culturalmente vitale per gli Stati Uniti", continua il documento, sottolineando che il commercio transatlantico "è ancora uno dei pilastri dell’economia globale e della prosperità americana".

"Coltivare la resistenza alla traiettoria attuale dell’Europa all’interno delle singole nazioni europee": questo uno degli obiettivi fondamentali delineati dalla nuova Strategia di sicurezza nazionale Usa. Secondo il testo, le "questioni più gravi che l’Europa deve affrontare includono le attività dell’Unione europea e di altri organismi transnazionali che minano la libertà politica e la sovranità, le politiche migratorie che stanno trasformando il continente e generando conflitti, la censura della libertà di parola e la soppressione dell’opposizione politica, il crollo dei tassi di natalità e la perdita di identità e fiducia nazionali".

Nel testo, Washington avverte che "se le tendenze attuali continueranno, il continente sarà irriconoscibile in vent’anni o meno", e "non è dunque affatto certo che alcuni Paesi europei manterranno economie e forze armate abbastanza solide da restare alleati affidabili". Molte di questi Stati-nazioni, che rimangono "l'unità politica fondamentale del mondo", al momento stanno intensificando gli sforzi che contraddistinguono il loro percorso attuale, rileva la strategia: "Vogliamo che l’Europa rimanga europea, che ritrovi la fiducia nella propria civiltà e abbandoni l’attenzione fallimentare alla soffocante regolamentazione", si legge nel documento.

Il documento evidenzia anche come i funzionari Usa siano "abituati a considerare i problemi europei in termini di carenze di spesa militare e stagnazione economica. In parte è vero, ma i problemi reali dell’Europa sono ancora più profondi. L’Europa continentale ha visto la propria quota del Pil globale diminuire, dal 25% nel 1990 al 14% di oggi, in parte a causa di regolamentazioni nazionali e transnazionali che minano la creatività e l’operosità. Ma questo declino economico è oscurato dalla prospettiva, ancora più seria, di una cancellazione della civiltà". Altrove, nella sezione che riguarda l'Ucraina, il documento parla anche di "sovversione dei processi democratici" da parte dei governi europei.

"Eppure, l’Europa rimane strategicamente e culturalmente vitale per gli Stati Uniti", continua il documento, sottolineando che il commercio transatlantico "è ancora uno dei pilastri dell’economia globale e della prosperità americana", i settori industriali europei "restano tra i più solidi al mondo" e il continente ospiti "ricerche scientifiche d’avanguardia e istituzioni culturali di livello mondiale. Non possiamo permetterci di abbandonare l’Europa: farlo sarebbe controproducente per gli obiettivi di questa strategia". La diplomazia americana deve quindi "continuare a difendere la vera democrazia, la libertà di espressione e la celebrazione senza complessi del carattere e della storia delle singole nazioni europee. L’America incoraggia i propri alleati politici in Europa a promuovere questa rinascita dello spirito, e la crescente influenza dei partiti patriottici europei è motivo di grande ottimismo".

"Il nostro obiettivo è aiutare l’Europa a correggere la propria traiettoria attuale. Avremo bisogno di un’Europa forte per competere con successo e collaborare con noi nel prevenire che qualsiasi avversario domini il continente europeo", continua il testo, specificando che gli Stati Uniti rimangono "comprensibilmente legati sentimentalmente al continente europeo, e naturalmente alla Gran Bretagna e all’Irlanda. Il carattere di questi Paesi è anche strategicamente importante, perché contiamo su alleati creativi, capaci, fiduciosi e democratici per creare condizioni di stabilità e sicurezza. Vogliamo collaborare con Paesi allineati che desiderano ristabilire la loro antica grandezza".

domenica 7 dicembre 2025

Interferenze, trame e macchinazioni segrete: 80 anni di relazioni tra Usa ed Europa, dal sostegno al disprezzo

 @ -  Trump, Vance e Musk imputano alla Ue una deriva illiberale simile all'ondata del «woke»
Che cosa c’è di veramente nuovo, nell’ingerenza di Donald Trump nella politica europea? Nell’ultimo documento strategico della Casa Bianca il Vecchio continente viene definito a rischio di decadenza (economica, demografica, morale), nonché esposto a una degenerazione illiberale.


Per quanto l’esercizio sia faticoso, è utile metter da parte l’amor proprio offeso, la ripicca emotiva, e provare un’analisi di taglio storico. Dalla fine della Seconda guerra mondiale, gli 80 anni dei rapporti transatlantici pullulano di interferenze, trame, macchinazioni, segrete o alla luce del sole. Durante la Guerra fredda le interferenze americane furono giustificate dal fatto che l’Unione sovietica faceva altrettanto da parte sua: finanziava partiti e sindacati di sinistra, manovrava movimenti pacifisti a senso unico (sempre contrari a un solo riarmo, quello occidentale), nutriva forze fiancheggiatrici nel mondo intellettuale. L’America, fin dall’epoca di presidenti democratici come Truman e Kennedy, repubblicani come Eisenhower, praticò le intromissioni nella politica interna degli alleati. Per l’Italia la storia ebbe inizio con gli aiuti alla Democrazia cristiana di De Gasperi: dall’uso «politico» del Piano Marshall per la ricostruzione fino ai finanziamenti occulti. Nei momenti più bui della Guerra fredda, quando si temeva un’invasione sovietica dell’Europa occidentale che la Nato forse non avrebbe saputo contrastare, ci fu la stagione delle organizzazioni clandestine di «resistenza», in cui vennero ingaggiati servizi segreti deviati, forze neofasciste, organizzazioni criminali. Il cosiddetto «fattore K» — il veto implicito di Washington contro l’ingresso dei comunisti al governo — durò fino agli anni Settanta: il timore che l’America potesse orchestrare qualcosa di analogo al golpe cileno contro Allende (1973) ispirò il «compromesso storico» di Berlinguer, l’alleanza con la Dc doveva anche rassicurare gli Usa.

Forme di ingerenza più benevole e trasparenti, ci furono vent’anni dopo quando il democratico Bill Clinton guidò la Terza Via, movimento liberal-progressista che coinvolse Tony Blair, Gerhard Schröder, Romano Prodi, Massimo D’Alema. Il rapporto fra Barack Obama e Matteo Renzi ne era l’ultima versione.
In che misura Trump può essere descritto come la versione di destra, o di estrema destra, di questi 80 anni di intromissioni? L’analisi del documento strategico copia quella che il vicepresidente JD Vance fece all’inizio dell’anno alla conferenza di Monaco. Tra i pericoli che individua in Europa ci sono l’immigrazione e la censura «woke». Per il mondo Maga (Make America Great Again) l’ostilità verso Israele e l’ondata di antisemitismo nel Vecchio continente sono la conseguenza dell’immigrazione da Paesi islamici, che condiziona la politica estera oltre a minacciare i valori della civiltà europea. La libertà di espressione è limitata da regole che dietro l’imparzialità burocratica tradiscono la stessa intolleranza «woke» delle élite progressiste in America. Ha fatto scalpore negli ambienti Maga l’arresto di un noto autore di satira in Inghilterra, per aver offeso la comunità transgender. Questa deriva illiberale nell’ottica di Trump, Vance e Musk si intreccia con la stagnazione demografica ed economica dell’Europa, la poca innovazione tecnologica, l’ipertrofia burocratica, e sfocia nella cupa previsione di un declino terminale.

Questa visione è condivisa da forze di destra o di estrema destra in Europa. Segna una rottura rispetto agli ultimi 80 anni e ha dei punti deboli evidenti. Una contraddizione interna è il confronto con l’approccio pragmatico verso Cina, Russia, Medio Oriente: in queste parti del mondo l’America trumpiana si libera da ogni residuo di «missione civilizzatrice», non pretende di esportare valori, non entra nel merito dei modelli politici. A Putin, Xi Jinping e Mohammed Bin Salman si applica la realpolitik secondo l’eredità di Henry Kissinger, agli europei invece si impongono dettagliate pagelle sulle loro scelte interne.

La seconda debolezza è tattica. Durante la Guerra fredda la sponda per gli americani erano partiti come la Dc, con largo consenso e radici profonde nella cultura nazionale. Oggi Trump e Vance giocano a favore di forze ai margini dello spettro politico come l’AfD tedesca o Farage a Londra. Washington imbarazza partiti conservatori come la Cdu di Merz, che pure è vicino all’America Maga su tanti temi: vuole ridurre l’immigrazione e annacquare l’agenda Green; avvia il riarmo tedesco; è protezionista contro la Cina; non è anti-Israele. Kissinger fu segretario di Stato di un presidente repubblicano molto anti-europeo, Nixon; però avrebbe condannato il documento di Trump come un autogol: indebolisce gli amici dell’America e rafforza i suoi nemici.

sabato 6 dicembre 2025

Crosetto: «Trump ha esplicitato che l'Europa non gli serve, obiettivo è la Cina». Affondo di Musk: l'Ue va abolita

@ - «La traiettoria della politica americana era evidente già prima dell'avvento di Trump che ha soltanto accelerato un percorso irreversibile. Gli USA hanno in corso una competizione sempre più difficile, complessa e dura con la Cina e ogni loro atto, decisione, comportamento, deve essere letto in questo scenario.

Trump attacca l'Europa, Crosetto: «Ha esplicitato che la Ue non gli serve, obiettivo Usa è competizione con la Cina»© Ansa

Trump ha semplicemente esplicitato che l'Eu gli serve poco o nulla in questa competizione». Lo afferma il ministro della Difesa, Guido Crosetto, con un post su X dove ha commentato la Strategia di sicurezza nazionale Usa, aggiungendo che «ogni decisione, ogni atto futuro sarà affrontato con un solo obiettivo: il rafforzamento degli Usa nella competizione con la Cina».

La nuova strategia
Secondo quanto scrive Crosetto al presidente degli Stati Uniti, l'Unione Europea non serve «perché non ha risorse naturali particolarmente rilevanti o utili. Perché sta perdendo la competizione sull'innovazione e la tecnologia. Perché non ha potere militare. Perché, rispetto ai nuovi attori del Mondo, è piccola, lenta e “vecchia”. I motivi per cui lo abbia fatto anche con un po' di asprezza non sono nemmeno loro una sorpresa perché i suoi giudizi (e quelli di molti esponenti repubblicani o maga) su alcune posizioni e scelte politiche dell'Unione sono note da anni». Per il ministro della Difesa però «il tema principale non è l'Ue. Come si nota dal poco spazio dedicato al vecchio continente, nella strategia resa nota ieri. Ogni decisione, ogni atto futuro sarà affrontato con un solo obiettivo: il rafforzamento degli Usa nella competizione con la Cina».

Lo scenario
Un approccio che Crosetto definisce «pragmatico, senza sentimenti o legami, utilitaristico ed esclusivamente orientato alla supremazia economica e tecnologica nei prossimi anni perché significa supremazia in questo secolo. Nulla di nuovo, per chi lo avesse seguito negli anni, nulla di strano rispetto alla visione americana consolidata. É questo scenario (come dicevo ampiamente previsto) quello nel quale devono essere definite le scelte, le decisioni, le strategie delle nazioni più piccole (come noi)». Perché «anche noi abbiamo bisogno di risorse. Perché anche noi abbiamo bisogno di tecnologie. Perché anche noi abbiamo bisogno di far crescere la nostra economia e difendere il nostro spazio di ricchezza. Non per esercitare una supremazia su qualcuno ma per garantirci futuro».

Musk: «l'Ue deve essere abolita»
L'ex doge Elon Musk esterna in sostegno del contenuto della nuova dottrina per la sicurezza nazionale elaborata dalla Casa Bianca e dichiara, attraverso un tweet sulla sua piattaforma X: «l'Unione europea deve essere abolita e la sovranità restituita ai diversi Paesi in modo che i governi possano meglio rappresentare i popoli dei Paesi».


Da 3 anni, in privato, incontri, riunioni dei ministri, interviste, dico ciò che ieri è stato codificato nella Strategia di Sicurezza Nazionale USA e cioè che il rapporto con l’EU sarebbe mutato e che le garanzie di difesa regalate dopo il ‘45 sarebbero finite velocemente. Era Mostra altro

sabato 29 novembre 2025

Scandalo corruzione a Kiev, lascia Yermak, potentissimo braccio destro di Zelensky. Nelle intercettazioni era «Ali Babà»

 @ DAL NOSTRO INVIATO
KIEV – La grotta di Ali Babà è in via della Banca. Un’elegante e blindata strada nel quartiere governativo di Kiev, piena di tigli e di droni di sorveglianza e di case bellissime: la più spettacolare è la residenza presidenziale, poco più su, la Casa delle Chimere in stile Gaudì dove vive Volodymyr Zelensky.

Scandalo corruzione a Kiev, lascia Yermak, potentissimo braccio destro di Zelensky. Nelle intercettazioni era «Ali Babà»

Fa ancora buio, venerdì mattina, quando gli agenti in mimetica con le sigle “Nabu” e “Sapo” stampate sulla schiena suonano al citofono di Andriy Yermak, 54 anni, che di Zelensky è sia il vicino, sia l’amico fraterno, sia il capostaff appena rientrato da Ginevra e dai colloqui di pace. “Buongiorno, siamo dell’Agenzia anticorruzione e della Procura speciale. Abbiamo un ordine di perquisizione della sua abitazione e del suo ufficio. E’ disposto a collaborare…?”. Sì, Yermak è disposto. Nessuno gli spiega esattamente che cosa cerchino e il documento non specifica ancora un’accusa. Ma in fondo lui li aspettava: nelle intercettazioni dell’inchiesta Mida, il più grande scandalo ucraino da quand’è scoppiata la guerra, i presunti ladroni parlano sempre d’un certo “Ali Babà”. Che altri non sarebbe se non Andriy Borysovych Yermak, regolarmente e prudentemente ed esclusivamente citato col nome in codice.

E’ l’alba d’una fine: Yermak detto “il Cardinale”, nominato consigliere del presidente nel 2020, era fino a ieri il secondo governante più potente d’Ucraina, un incrocio fra il cardinal Mazzarino e il Mr. Wolf dei film di Tarantino. E’ anche il tramonto d’un inizio: in quasi quattro anni di guerra, “Ali Babà” è stato l’ombra di Zelensky e compariva fin dalla prima notte dell’invasione, in divisa e alle spalle dell’amico Volodymyr, nel famoso ed eroico videoselfie girato davanti alla Casa delle Chimere (“Siamo tutti qui – proclamò il presidente, braccato dai russi -. I nostri soldati sono qui, i cittadini sono qui e noi siamo tutti qui. Stiamo difendendo la nostra indipendenza, e continueremo così”). Zelensky ha tentato in tutti i modi di salvare Yermak. L’estate scorsa, pure con una contestata legge ad personam che intendeva limitare i poteri di Nabu e Sapo. Ma una perquisizione così non s’era mai vista, a Kiev. Da due settimane, lo scandalo stava facendo tremare il governo, calare i consensi – il 70% dell’opinione pubblica voleva la cacciata del Cardinale – e si prestava al sarcasmo del Cremlino. Alla fine, il leader ucraino non ha potuto far altro che arrendersi a un’enorme pressione, firmare il licenziamento e presentarsi al Paese in un nuovo video: “Il capo di gabinetto Yermak mi ha presentato le sue dimissioni – ha annunciato venerdì sera -, lo ringrazio per aver sempre rappresentato la posizione dell’Ucraina e adottato sempre una posizione patriottica”.

Per la verità, nessuno aveva capito che cosa ci facesse ancora lì, Yermak. E come mai domenica scorsa, a scandalo ormai esploso, fosse stato scelto proprio lui per rappresentare Kiev ai colloqui in Svizzera. Avvezzo a una corruzione endemica – anche prima della guerra, l’Ucraina era fra i Paesi più tangentari del mondo -, qualcuno nel partito di Zelensky tendeva quasi a giustificare:In quel ruolo – diceva il deputato Mykyta Poturaiev –, anche un santo potrebbe trasformarsi in un diavolo dopo qualche mese. Lo stesso Lucifero non cominciò come angelo?”. Ma era chiaro a tutti, dice ora lo stesso Poturaiev, “che Yermak doveva andarsene, ovvio, stava avendo conseguenze negative sulla scena internazionale e aggravando la nostra crisi sociale interna”. Sono stati gli stessi alleati del presidente, a esigere il licenziamento: “Meglio tardi che mai”, commentava ieri la presidente della commissione parlamentare anticorruzione, Anastasiia Radina. “Francamente – dice al Corriere della Sera Inna Sovsun, deputata dell’opposizione -, queste dimissioni mi hanno sorpreso. Yermak era diventato troppo debole, come capo dei negoziatori ucraini. E le sue dimissioni erano desiderate, agognate: non sono mai stata una sua fan e credo che durante la guerra, senza di lui, avremmo potuto ottenere di più. Avremmo potuto ottenere di più anche a Ginevra, mandando diplomatici di professione, invece di questo ex produttore cinematografico senza passato politico. Zelensky però ha fatto una mossa inaspettata, aveva detto che l’avrebbe licenziato solo di fronte a prove certe di corruzione. C’è da chiedersi cosa l’abbia spinto ad agire così rapidamente”. Le pressioni dell’Ue e di Washington, di sicuro: “Yermak è un elemento tossico”, ha confidato a Kyiv Independent un diplomatico europeo. “La lotta alla corruzione è un punto fondamentale nel progetto d’allargamento dell’Ue all’Ucraina”, spiega Guillaume Mercier, portavoce della Commissione europea. Chiaramente nessuno s’aspetta che la linea sul piano Trump, ripetuta da Yermak ai negoziati ginevrini, possa cambiare:Non c’è persona sana di mente – aveva avvertito lui stesso in un’intervista a The Atlantic – che oggi firmerebbe un documento per cedere territorio alla Russia. E finché Zelensky sarà presidente, nessuno potrà contare sul fatto che cederemo parti d’Ucraina. La Costituzione lo proibisce. Nessuno può farlo, a meno che non voglia andare contro la Costituzione e il popolo”. E’ evidente in ogni caso che “il momento non poteva essere peggiore”, commenta l’analista politico Bohdan Nahaylo:Le decisioni più importanti in materia di strategia militare, politica economica e iniziative diplomatiche passavano tutte per l’ufficio di Yermak. Era il suo cardinale grigio, il guardiano con cui tutti dovevano avere a che fare, piacesse o no. Le sue dimissioni ora sono il più pericoloso vuoto di potere da quand’è scoppiata la guerra. Ma possono essere anche un’opportunità. L’Ue ci chiede di soddisfare elevati standard di governance e trasparenza? Dimostrare che indaghiamo e puniamo anche ai livelli più alti? Rispondiamo a queste richieste, allora. Perché siamo di fronte a una prova: dimostrare che le dimissioni di Yermak sono un atto di responsabilità, non un segnale di caos”.

E dunque, sotto a chi tocca.Questa situazione indebolisce la posizione dell’Ucraina nei negoziati e la Russia senza dubbio sfrutterà questo scandalo”, osserva un altro analista ucraino, Volodymyr Fesenko. Nel giro di poche ore è possibile l’arrivo a Kiev del viceministro dell’Esercito Usa, Dan Driscoll. E la prossima settimana, una delegazione americana sarà a Mosca, mentre Vladimir Putin annuncerà d’essere pronto a discutere una nuova bozza a Budapest, personalmente con Donald Trump. Bisogna fare presto, a sostituire Yermak: la nuova squadra di Kiev ai negoziati potrebbe essere nominata già questo oggi. Un triumvirato, si dice: Andrii Hnatov, capo delle forze armate, assieme al ministro degli Esteri, Andrii Sybiha, e al capo del Consiglio di sicurezza, Rustem Umerov (pure lui indagato nello scandalo energetico). I militari puntano anche su Pavlo Palysa, un ex comandante di brigata che faceva da vice a Yermak, ma non c’è conferma d’un suo ruolo. Sarà evidentemente una soluzione temporanea, perché la poltrona richiede soggetti di profilo più alto: il primo ministro Yuliia Svyrydenko, il ministro per la Trasformazione digitale, Mykhailo Fedorov, il capo dell’intelligence militare, Kyrylo Budanov, il ministro della Difesa, Denys Shmyhal… La guerra per la successione è già cominciata e passa anche per il gradimento americano, oltre che europeo. “Quando tutta l’attenzione è concentrata sulla diplomazia e sulla difesa in una guerra – esorta all’unità Zelensky -, è necessaria la forza interiore. La Russia vuole che l’Ucraina commetta errori: non ci saranno errori da parte nostra”. Ali Babà e i suoi ladroni la pagheranno, se tali saranno giudicati:Ma il nostro lavoro continua, la nostra lotta continua. Non abbiamo il diritto di ritirarci e di litigare tra di noi. Se perdiamo l’unità, rischiamo di perdere tutto: noi stessi, l’Ucraina, il nostro futuro. Dobbiamo unirci, dobbiamo resistere. Non abbiamo altra scelta. Non avremo un’altra Ucraina”.

lunedì 17 novembre 2025

Il dottor Samia nomina il Gabinetto 2025/30

@DODOMA: La PRESIDENTE Samia Suluhu Hassan ha presentato una nuova formazione di gabinetto, introducendo una nuova leadership nei ministeri chiave per migliorare l'efficienza del governo e accelerare le priorità di sviluppo nazionale.


Annunciando i cambiamenti alla Casa dello Stato di Chamwino, oggi, 17 novembre, il Presidente Samia ha nominato ministri e i loro vice nell'Ufficio del Presidente, nell'Ufficio del Vicepresidente, nell'Ufficio del Primo Ministro e in vari ministeri settoriali.

Il nuovo team mira a rafforzare l'erogazione dei servizi, rafforzare la responsabilità e rafforzare l'attuazione dei programmi governativi di punta.

Nell'Ufficio del Presidente responsabile della gestione del servizio pubblico e della buona governance, Ridhiwani Jakaya Kikwete è stato nominato Ministro, con Regina Ndege Qwaray che ricopre il ruolo di Vice Ministro.

L'Ufficio del Presidente per la Pianificazione e gli Investimenti sarà guidato da Kitila Mkumbo, con Pius Steven Chaya come Vice Ministro.

È stato istituito un nuovo calendario dedicato allo sviluppo giovanile sotto l'Ufficio del Presidente. Sarà guidato da Joel Nanauka, che opererà senza un Vice Ministro. Sarà supportato da assistenti senior e tecnici che saranno annunciati a tempo debito.

Nell'Ufficio del Vicepresidente responsabile dell'Unione e dell'Ambiente, l'Ing. Hamad Yusuph Masauni è stato nominato Ministro, assistito da Festo John Ndugange come Vice Ministro.

Anche l'Ufficio del Primo Ministro ha subito cambiamenti importanti. Il fascicolo di Politiche, Parlamento, Coordinamento e Persone con Disabilità sarà guidato da William Lukuvi, con Ummy Ndeliananga come Vice Ministro.

Il Ministero del Lavoro, dell'Occupazione e delle Relazioni Industriali sarà guidato da Clemence Sango, mentre il vice è Rahma Kisuo.

La Presidenza del Consiglio dei Ministri ha ripreso il controllo del Ministero dell'Amministrazione Regionale e del Governo Locale. Il Prof. Riziki Silas Shemdoe è stato nominato Ministro, mentre Ruben Kwagilwa ha ricoperto il ruolo di Vice Ministro responsabile delle questioni relative all'istruzione. La funzione sanitaria all'interno di questo dossier sarà supervisionata da Jafar Rajab Seif.

Al Ministero delle Finanze, Khamis Mussa Omar ricoprirà la carica di Ministro, con Loren Deogratius Luswetula e Mshamo Munde come Vice Ministri.

Il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione dell'Africa Orientale sarà guidato da Mahmoud Thabit Kombo, assistito dal dottor Ngaru Jumaanne Magembe e da James Kinyasi Millya in qualità di Vice Ministri.

Al Ministero degli Affari Interni, Boniface Simbachawene è stato nominato Ministro, con Denis Lazoro Londo come Vice Ministro.

Il comitato dell'agricoltura sarà guidato da Godfrey Chongolo, con David Silinde come Vice Ministro, mentre il Ministero dell'Acqua sarà guidato da Juma Aweso, sostituito da Kundo Andrew Mathew.


Per la Difesa e il Servizio Nazionale, il Presidente ha nominato Raymond Nyasaho Ministro.

Al Ministero dei Lavori, Hamisi Abdallah Ulega è stato nominato Ministro, con l'Ing. Godfrey Kasekenya come Vice Ministro.

Il Ministero dei Trasporti sarà guidato da Makame Mbarawa Mnyaa, assistito da David Mwakiposa Kihenzile.

Il Ministero dell'Industria e del Commercio sarà supervisionato da Judith Kapinga, con Pascal Katambi come Vice Ministro.

Presso il Ministero delle Comunicazioni e delle Tecnologie dell'Informazione, Angela Kairuki è stata nominata Ministro, mentre Switbert Mkama ha ricoperto il ruolo di Vice Ministro.

Il Ministero dello Sviluppo Comunitario, del Genere e dei Gruppi Speciali sarà guidato da Dorothy Gwajima, la sua vice è Maryprisca Mahundi.

Al Ministero della Salute, Mohammed Mchengerwa è stato nominato Ministro, con Florence Samizi come Vice Ministro.

Il Ministero dell'Istruzione, della Scienza e della Tecnologia sarà guidato dal Prof. Adolf Mkenda, assistito da Wanu Hafidh Wazir.

Al Ministero delle Terre, dell'Edilizia e dello Sviluppo degli Insediamenti Umani, Leonard Akwilapo è stato nominato Ministro, con Kaspar Mmuya come Vice Ministro.

Il dossier sulle risorse naturali e il turismo sarà guidato dal dottor Ashatu Kijaji, con Hamad Hassan Chande come vice ministro.

Il Ministero dell'Informazione, della Cultura, delle Arti e dello Sport sarà guidato dal Prof. Palamagamba Kabudi, assistito da Khamis Mwinjuma e da un secondo Vice Ministro, Paul Makonda.

Al Ministero dell'Allevamento e della Pesca, Bashiru Ally Kakurwa ricoprirà la carica di Ministro, con Ngawasi Damas Kamani come Vice Ministro, mentre il Ministero dei Minerali sarà supervisionato da Anthony Mavunde; il suo vice è Steven Lemomo Kiruswa.

Il Ministero dell'Energia sarà guidato da Deogratus Ndejembi, con Salome Makamba come Vice Ministro.

Presso il Ministero degli Affari Costituzionali e Giuridici, Juma Zuberi Omera è stato nominato Ministro, assistito da Zainab Athumani Katimba.

Il Presidente Samia ha esortato il nuovo Gabinetto a mantenere l'integrità, lavorare con impegno e rimanere concentrato sulla realizzazione delle principali priorità nazionali. Ha sottolineato che i cambiamenti mirano ad accelerare i progressi in diversi settori strategici e a soddisfare le aspettative dei cittadini per servizi pubblici di alta qualità.

martedì 11 novembre 2025

Il Piano Mattei e l'Africa: oltre i colonialismi

@ - Dal volgere del Millennio l’Africa è diventata terreno di scontro geopolitico tra Usa, Cina, Russia e altri soggetti, tra cui l’Europa. Al centro della contesa energia, agricoltura, materie prime e terre rare. L’arrivo dei cinesi ha rimesso al centro degli interessi globali l’Africa che gli occidentali, avevano abbandonato nel corso degli anni Novanta. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, né Barack Obama né Donald Trump hanno mostrato grande e reale interesse; Joe Biden vi ha fatto solo una rapida visita. Il focus americano è ormai l’Indo-Pacifico. La Russia ha compiuto passi di presenza e influenza con l’unico strumento che possiede: armi e contractors (Wagner e successori). Altri investitori si sono affacciati come la Turchia o gli Stati del Golfo.

In questo contesto l’Europa rimane pur sempre il principale partner nell’aiuto allo sviluppo, ma con dei mutamenti profondi. La Francia non è più favorita dalla sua “relazione speciale” con i Paesi francofoni. La guerra in Ucraina drena moltissime risorse. Ai singoli Stati europei manca una visione geostrategica sull’Africa, ma l’Unione Europea si è data gli strumenti necessari per competere, come il Global Gateway. L’Italia è piccola per un continente immenso come l’Africa ma possiede alcune carte da giocare. Non siamo più il Paese delle grandi imprese pubbliche degli anni Sessanta-Settanta che hanno lasciato il segno sul continente: ancora tutti parlano delle nostre realizzazioni di quei decenni. A parte WeBuild (Salini), Eni, Enel, Fincantieri e Leonardo e poche altre, ci mancano campioni nazionali nel settore agroalimentare, turismo, pesca, lavori infrastrutturali intermedi (case, scuole, ospedali), logistica, trasporti, automotive. Tuttavia, Bonifiche Ferraresi e altri danno l’esempio di come si possa tornare sul continente con ottimi ritorni. Abbiamo migliaia di piccole e medie imprese che gli africani prediligono: preferiscono trattare con esse piuttosto che vedersi imporre tutto da una multinazionale. Inoltre, conoscono ed apprezzano la qualità italiana. L’idea del Piano Mattei è un volano che punta ad aiutare l’Africa a industrializzarsi, cosa mai tentata prima e unica via per un vero sviluppo, come è accaduto all’Asia. L’Italia è un partner ideale se le istituzioni avranno il coraggio di garantire gli investimenti delle nostre imprese. Il Piano Mattei è una rivoluzione copernicana per tutto il nostro sistema (Sace, Cdp, Simest e Ice) abituato da tempo all’iper-prudenza: con il piano deve garantire investimenti a più alto rischio e creare strumenti di garanzia specifici. Un altro vantaggio italiano è non avere – almeno nelle percezioni africane – strascichi post o neocoloniali.

Non è del tutto vero – si pensi al massacro di Debre Libanos nel 1937 – ma è un fatto che avvantaggia. Piano Mattei significa tornare in Africa per restarci: uno dei difetti storici italiani è quello della mancanza di continuità istituzionale. Il piano è un concetto-contenitore riempito di progetti innovativi: si proseguono le buone cose già fatte in passato a livello di sanità, educazione, formazione ecc., ma se ne aumenta la magnitudine. Vi sono molte buone pratiche italiane – soprattutto delle Organizzazioni non governative – da replicare. Il piano serve come strumento per partecipare a programmi europei di grandi dimensioni, come il corridoio di Lobito che ha l’ambizione di attraversare il continente da est a ovest. Con il Piano Mattei, l’Italia potrà divenire un partner stabile del continente: non è solo una questione di quanti soldi metterci ma di quanto know how, tecnologia e spirito di cooperazione paritaria saremo capaci di esprimere. Gli africani sanno fare la differenza tra chi è venuto solo a estrarre e sfruttare e chi vuole costruire qualcosa assieme. Gli Stati africani hanno imparato in questi decenni, in particolare dall’inizio dei conflitti in Ucraina e a Gaza, che le grandi potenze (Usa, Russia e Cina) e i paesi ricchi (Ue, G7, G20 e anche i Brics e la Sco) fanno solo i propri interessi e non credono più al multilateralismo. In tale contesto caotico e sregolato, l’Africa si adatta ma cerca anche partner affidabili.

martedì 4 novembre 2025

Così Stalin è riuscito (grazie a Roosevelt) a smembrare l’Europa

@ - Mesi fa, nell'ottantesimo della fine della Seconda guerra mondiale, suscitò qualche perplessità, se non altro fra gli storci, l'idea che a festeggiarla sul Vecchio continente in qualità di vincitori ci fossero solo potenze occidentali. Non era per la verità un fatto del tutto nuovo, perché per l'intero dopoguerra e finché esistette l'Urss l'Occidente fece più o meno finta di aver sconfitto il nazismo da solo e che quella vittoria la si fosse ottenuta in nome della libertà e della democrazia di tutti.

Così Stalin è riuscito (grazie a Roosevelt) a smembrare l’Europa
C'era dietro questa vulgata una gigantesca coda di paglia, a partire dal fatto di una guerra scoppiata per difendere la Polonia dall'aggressione nazista e che si era conclusa con una Polonia sotto il terrore stalinista, e dall'aver travestito quello che era stato un matrimonio di convenienza, contro un nemico a un certo punto divenuto comune, con una dittatura che non solo fino a poco tempo prima era stata ideologicamente avversa alle democrazie liberali, ma di quel nemico, Hitler, appunto, era stata alleata, nel senso che aveva stretto con lui un trattato di non belligeranza, proprio in Polonia...

La coda di paglia si faceva tanto più folta se si andava a guardare un po' più da vicino come, fra la fine del 1941 e ancora agli inizi del 1943 Inghilterra e Usa avessero, per supponenza o miopia politica, ci torneremo più avanti, perso l'occasione di negoziare con Stalin da posizioni di forza e stabilirne fin da allora i confini postbellici. Dopo, non solo non sarebbe stato più possibile, ma i trionfi militari lungo un fronte che misurava tremila chilometri, dal Baltico ai confini meridionali dei Balcani, unito a un tributo immenso di vite umane, otto milioni di soldati sovietici, avrebbe fatto di Stalin il vincitore tanto sul campo di battaglia quanto su quello dell'accordo postbellico che ne sarebbe seguito, in pratica l'intera Europa orientale, Germania orientale compresa, ai suoi ordini.

È questa la convincente chiave di lettura dello storico Jonathan Dimbleby nel suo 1944. Finale di partita (Feltrinelli-Gramma, traduzione di Roberto Serrai, 704 pagine, 26,60 euro) che non a caso ha per sottotitolo Come Stalin vinse la guerra...

Va detto che a facilitare la supremazia di Stalin concorsero le divergenze fra Churchill e Roosevelt, gli altri due grandi attori delle conferenze prima di Teheran, poi di Yalta. Agli occhi del presidente americano, l'approccio britannico era di tipo imperiale, in netta contraddizione con quell'afflato democratico e universale proprio di una nazione che nella guerra in Europa era entrata malvolentieri e perché costretta. Come scrive Dimbleby, «Roosevelt era molto meno preoccupato di Churchill dall'impostazione dittatoriale o dalle ambizioni strategiche del leader sovietico. Era determinato a forgiare un'alleanza con L'Unione Sovietica che non solo permettesse alle due potenze di conciliare le reciproche differenze, ma anche - insieme a Gran Bretagna e Cina sotto l'ombrello delle Nazioni Unite - assegnare loro la responsabilità condivisa di proteggere il diritto di ogni nazione, a prescindere dalle dimensioni, dal potere o dall'orientamento politico, a determinare il proprio futuro senza ingerenze interne. Fu questa convinzione ingenua e sincera a spingere il presidente degli Stati Uniti a guardare on profonda avversione alle prospettive di un mondo del dopoguerra diviso in sfere di influenza e a considerare affine al tradimento qualunque indizio, per quanto labile, che il suo alleato britannico nutrisse ancora illusioni imperiali».

Dietro la dolciastra retorica con cui Stalin diveniva per Roosevelt «lo zio Joe», c'era insomma, di là dalla sua «convinzione ingenua e sincera» di cui parla Dimbleby, una sostanziale ignoranza mista a disinteresse sulla realtà europea, geografica, politica, sociale, nonché una sottovalutazione delle mire espansioniste di Stalin che si univa a una sopravalutazione del ruolo degli Stati Uniti come esempio e guida per il mondo a venire.

Va detto che sulla sottovalutazione, ancora a Yalta, Churchill non fu da meno, il che è ancora più grave, considerato il suo anti-bolscevismo pregresso. Come osserva Dimbleby, anche il premier britannico si lasciò convincere «che Stalin non fosse più il tiranno comunista prebellico che aveva terrorizzato l'Unione Sovietica; che in qualche modo si fosse forgiato nella fornace della guerra e fosse divenuto un uomo di pace; che ci si potesse fidare di lui per interpretare le ambiguità dei comunicati ufficiali del vertice nei modi che gli altri due avrebbero desiderato».

Anche quando, suo malgrado, Roosevelt dovette prendere atto che erano proprio le «sfere di influenza» quelle che si sarebbero prospettate a guerra finita, e che «le questioni europee erano così complesse che voleva restarne fuori il più possibile, fatta eccezione per ciò che riguardava la Germania», la «resa incondizionata» che di quest'ultima veniva chiesta fu l'ulteriore dimostrazione di come gli Stati Uniti considerassero l'Europa, quella orientale, ma anche il suo alleato insulare e occidentale una «quantité negligeable», ovvero qualcosa di cui non tenere conto. La sconfitta tedesca senza se e senza ma, scrive Dimbleby, era per Washington «un mezzo per arrivare a un fine superiore, una precondizione per la creazione del nuovo ordine mondiale tanto caro al presidente per cui, dopo la sconfitta del Giappone, l'Unione Sovietica sarebbe stata un partner cruciale. Per Londra, la vittoria non comportava solo la distruzione dell'esercito nazista, ma anche la creazione di un potente baluardo occidentale nel cuore di un continente frammentato, contro la minaccia dell'espansionismo sovietico. Per gli americani, la città di Berlino era u obiettivo militare secondario; non importava molto se veniva conquistata dai russi o dagli alleati»...

Si spiega così perché Eisenhower, che era allora il comandante in capo delle forze alleate, senza nemmeno consultarsi con il suo presidente, tanto dava per scontato il suo assenso, ma naturalmente senza preoccuparsi di informare Churchill, comunicherà a Stalin che i piani per le sue prossime avanzate «escludevano un attacco a Berlino».

Come spesso, se non sempre, accade, ciò che avvenne dopo mise in evidenza quanto di sbagliato c'era stato prima, uno strapotere sovietico che imponeva la sua legge su metà del Vecchio continente, dando ragione a chi, come il ministro degli Esteri britannico Anthony Eden, già nel marzo 1942 aveva previsto: «Considerando che la Germania sarà sconfitta, che la potenza militare sarà distrutta, le posizioni della Russia sul continente europeo saranno inattaccabili. Il prestigio russo sarà così grande che l'instaurazione di regimi comunisti nella maggior parte dei Paesi europei sarà fortemente facilitata».

Succeduto a Roosevelt, Truman dovette in pratica fare il suo esatto contrario, con Stalin che da partner di un mondo libero tornava ad essere il nemico principale di quello stesso mondo. Ma come osserva Dimbleby, il crollo dell'Urss e la fine del comunismo mezzo secolo dopo hanno riproposto, paradossalmente rovesciato di segno, il problema del peso specifico della Russia all'interno dello spazio europeo.

Nel 1991, ancora con Gorbacev, l'Occidente, ma sarebbe più giusto dire gli Stati Uniti, aveva dato rassicurazioni verbali su fatto che la Nato non avesse alcuna intenzione di espandere i suoi confini oltre la frontiera di quella che era ancora la Germania dell'Est. Tempo un anno, l'ombrello Nato cominciò invece ad aprirsi sempre di più, a confermare la posizione egemonica americana sul continente. Era una strategia pericolosa, come George Kennan, che pure era stato il principale artefice della politica statunitense di contenimento sovietico, stigmatizzò con parole che lette oggi sono altrettanto illuminanti di quelle di Eden mezzo secolo prima. L'allargamento della Nato, scrisse, «sarebbe stato l'errore più fatale della politica americana dopo la Guerra fredda. Avrebbe infiammato le tendenze nazionalistiche, antioccidentali e militariste nell'opinione pubblica russa; avrebbe avuto un effetto negativo sullo sviluppo della democrazia russa; avrebbe restaurato l'atmosfera della Guerra fredda nelle relazioni fra Est e Ovest e avrebbe spinto la politica estera russa in una direzione decisamente di non nostro gradimento».

La guerra in Ucraina viene da lì e Dimbleby, in questo passato che ritorna non può che affidarsi alle parole di un poeta come T.S. Eliot nel primo dei suoi Quattro Quartetti: «Tempo presente e tempo passato sono forse presenti nel tempo futuro».

lunedì 3 novembre 2025

La provocazione di Mosca sul crollo della Torre dei Conti

@La portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, ha pubblicato sul suo canale Telegram un messaggio in cui collega il crollo della Torre dei Conti, ai Fori Imperiali di Roma, al sostegno italiano all’Ucraina.

La provocazione di Mosca sul crollo della Torre dei Conti

«Finché il governo italiano continuerà a sprecare inutilmente i soldi dei contribuenti, l’Italia crollerà, dall’economia alle torri», ha scritto Zakharova, aggiungendo che secondo i dati del ministero degli Esteri italiano «il sostegno italiano all’Ucraina, compreso l’aiuto militare e in contributi versati attraverso i meccanismi Ue, ammonta a circa 2,5 miliardi di euro». Il post è stato pubblicato mentre i vigili del fuoco erano ancora impegnati nei soccorsi per estrarre un operaio rimasto intrappolato tra le macerie del monumento.

La portavoce del Cremlino non è nuova a dichiarazioni di questo tipo. Nei mesi scorsi aveva attaccato duramente Sergio Mattarella, commentando un suo discorso a Marsiglia. All’epoca lo aveva accusato di pronunciare «invenzioni blasfeme», ricordando che «l’Italia è stato il Paese dove è nato il fascismo» e definendolo «il presidente di un Paese che storicamente è stato tra quelli che hanno attaccato il nostro Paese». Uno dei tanti attacchi che poi Zakharova ha perpetrato nei confronti del Capo dello Stato, senza lasciarsi scappare anche delle critiche alla Farnesina.

Il Pd: «Parole inaccettabili, venga convocato l’ambasciatore russo»

La capogruppo del Partito democratico alla Camera, Chiara Braga, ha definito le frasi della portavoce «inaccettabili, stupide e volgari». In una nota, Braga ha aggiunto che le dichiarazioni risultano «tanto più gravi mentre i soccorritori – a cui va il nostro ringraziamento – ancora stanno scavando per tirare fuori dalle macerie un operaio». La deputata ha quindi invitato il ministro degli Esteri a convocare l’ambasciatore russo «per esprimere lo sdegno del nostro governo e di tutti i cittadini per affermazioni ciniche che manifestano solo l’intolleranza e la violenza di un regime autoritario e aggressivo».

sabato 25 ottobre 2025

Italia «più imparziale» degli altri Paesi Ue: perché Trump ha scelto Meloni per mediare con l'Iran

@Per costruire il «nuovo Medio Oriente» serve anche qualcuno che parli con l’Iran. E Trump ha scelto Meloni. In questa fase di transizione non conta solo chi è seduto al tavolo della trattativa, serve che niente e nessuno compromettano l’esito di un progetto complicato.

Italia «più imparziale» degli altri Paesi Ue: perché Trump ha scelto Meloni per mediare con l'Iran

Già le variabili sono tante nel processo di stabilizzazione della tregua a Gaza, ci mancano le incognite. Che per la Casa Bianca sono rappresentate soprattutto dalle mosse di Teheran. Perciò è necessario avere un canale di contatto. E siccome Stati Uniti e Iran al momento non vogliono (e non possono) parlarsi, Washington ha deciso di affidare a Roma un ruolo delicato: quello di tramite. Palazzo Chigi diventa così il crocevia di messaggi che i due nemici si scambiano per via indiretta. È uno dei compiti che fa capire perché Meloni in Parlamento abbia detto: «Stiamo compiendo la nostra parte». Da mesi. A parte le storiche relazioni con Teheran, nell’ultimo periodo l’Italia è stata «l’unica nazione del Vecchio continente ad aver tenuto aperta un’interlocuzione diplomatica con il regime teocratico, assumendosi non pochi rischi e attirandosi l’ostilità di Francia, Germania e Regno Unito».

A raccontarlo è un’autorevole fonte internazionale, vicina al dossier, che riferisce le tensioni maturate tra i Paesi europei all’indomani dello «snapback» con cui sono state ripristinate dopo dieci anni le sanzioni contro l’Iran per la proliferazione nucleare. Teheran considera l’Italia lo Stato dell’Occidente «più imparziale». Non a caso in aprile aveva accettato che si svolgesse a Roma il secondo round dei colloqui sul nucleare con gli americani gestito dall’Oman. Una mediazione che dopo l’esplosione del conflitto con Israele a giugno si è interrotta. Ma ci sarà un motivo se nell’occasione Tajani aveva detto che «l’Italia sostiene ancora i negoziati in prima fila». La dichiarazione del ministro degli Esteri faceva seguito a quella di Trump, secondo il quale «l’Iran potrebbe avere un’altra possibilità di accordo».

L’affidabilità del governo italiano è vissuta come una garanzia da Teheran. E siccome Trump privilegia le relazioni bilaterali, la Casa Bianca ha dato l’incarico a Palazzo Chigi sapendo peraltro che Meloni ha instaurato ottimi rapporti con gli altri Paesi dell’area mediorientale. In questo momento il presidente americano è concentrato sul suo progetto per Gaza e la Palestina. Le variabili sono numerose quanto gli interessi (contrapposti) dei Paesi interessati. «Un passaggio importante sarà la visita di metà novembre a Washington del principe ereditario dell’Arabia Saudita», spiega la fonte: «Riad vorrebbe indicare il nome della personalità che sarà chiamata a guidare il processo. Ma non lo farà finché Hamas non sarà stata completamente disarmata».

Per quanto sia stata duramente colpita, l’organizzazione terroristica continua a massacrare palestinesi inermi nella Striscia di Gaza, intralciando la distribuzione degli aiuti umanitari. E il nome di Hamas si collega direttamente all’Iran. Ecco l’incognita tra le tante variabili. E il rischio che una mossa di Teheran possa scatenare un effetto domino, incendiando nuovamente il Medio Oriente. Ecco perché Washington «ha bisogno di segnali» dal regime: l’obiettivo primario è che l’Iran faccia capire di non voler uscire definitivamente dal trattato di non proliferazione delle armi nucleari.

Perciò dopo la reintroduzione delle sanzioni è stato inviato a Teheran un messaggio: «Evitate di reagire pesantemente». C’è il forte e motivato timore che in caso contrario Israele — sentendosi minacciato — torni ad attaccare l’Iran. E a quel punto il progetto a cui lavorano gli Stati Uniti, e quanti hanno aderito al piano di Trump, salterebbe. In questa partita ha un ruolo importante l’italo-argentino Grossi, direttore generale dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica, che si sta giocando la poltrona di segretario generale delle Nazioni Unite. Ognuno ha un compito nel processo di stabilizzazione dell’area. E l’Italia ha le sue mansioni. Sarà (anche) per questo che Meloni ripete spesso di sentirsi «un infopoint».